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Il sentiero del Ciolo

Archeologia e civiltà contadina nel Paesaggio di pietra del Capo di Leuca

“Camminando per la storia si incontrano le nostre radici, alberi di pensiero e frutti di conoscenza”

Paesaggi di pietra: un ambiente interamente costruito adattando la natura alle necessità della vita; pietre intrise di umanità e di sudore […]. Le pietre sono testimonianze di rapporti remoti tra l’uomo e la natura: menhir, dolmen, tumuli di specchie, ma soprattutto pietre sovrapposte con perizia secolare per costruire una miriade di piccole costruzioni o di muretti […].

In questa regione affamata di terra la pietra si trasforma da ostacolo in materiale da costruzione, amalgamandosi con la natura (VINCENZO CAZZATO). Il paesaggio che fa da cornice al Canale del Ciolo è un susseguirsi di veri e propri monumenti della civiltà contadina: villaggi di capanne litiche circondati da dedali di muretti a secco, che si stagliano in perfetto equilibrio su un promontorio proteso verso il mare, dove l’orizzonte in alcune giornate limpide collima con la catena montuosa degli Acrocerauni. Le opere in pietra testimoniano una continua lotta tra l’uomo e la natura, con il primo impegnato a liberare spazi coltivabili e arabili anche laddove la seconda sembrava nettamente prevalere. L’asprezza di queste contrade è stata descritta da Cosimo De Giorgi, che ha percorso stradine campestri per discendere nelle valli e nei burroni, arrampicandosi tra i sassi delle colline che fiancheggiano l’Adriatico e la vegetazione tipica della Macchia mediterranea, che copre di verde tutto l’altopiano: bisogna tentare una ginnastica da scojattoli, scriveva lo studioso-viaggiatore, per osservare i burroni profondi e tanto pittoreschi del Ciolo e di Novaglie, che somigliano alle gravine di Castellaneta nel Tarantino, e per visitare le grotte delle Prazziche, molto sollevate sul mare, di fronte all’immenso mare di Leuca. Il sentiero, ora perfettamente fruibile, si snoda in un paesaggio mozzafiato a picco sul mare, dove lo sguardo spazia da Punta Palascìa (presso Otranto) al profilo erto dell’isola di Othonoi (Fanò). Sulle alte falesie del Canalone, sospese tra Terra e Mare, si affacciano una miriade di cavità che da sempre hanno offerto riparo e protezione ad uomini ed animali. La stessa località è stata intensivamente indagata, negli anni ’60, da un’equipe di archeologi dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, coadiuvata da alcuni gruppi speleologici locali, con ottimi riscontri dal punto di vista della conoscenza della Preistoria salentina. I depositi rinvenuti all’interno delle grotte hanno conservato importanti reperti che attestano una frequentazione fin da epoche molto remote.Tra una pajara e una mantagnata, tra una liama e un muro paralupi, si giunge al cospetto di una cavità naturale che si apre a 35 metri sul livello del mare lungo il costone sudoccidentale del Canale del Ciolo. Si tratta della Grotta dei Moscerini, così definita per via del cunicolo orizzontale infestato dai moscerini. Nel 1962 fu effettuato un piccolo saggio di scavo che ha messo in evidenza tracce di un focolare e numerosi frammenti di vasi ad impasto dell’età del Bronzo. Dieci anni dopo, nel 1972, venne rilevata dal Gruppo Grotte Milano, condotto da Adriano Vanin, che segnalava la presenza non solo degli insetti ma anche di nasse utilizzate dai pescatori del luogo. A poche decine di metri di distanza - a 60 metri s.l.m. - si individua una cavità, inglobata in una proprietà privata, il cui ampio ingresso è chiuso da un muretto a secco. L’ambiente interno ospita un vecchio albero di fico che pare abbia trovato il suo habitat ideale, mentre delle buche nel sedimento di terra indiziano la presenza di piccoli mammiferi assopiti nel lungo letargo invernale. La grotta è costituita da un ampio ingresso da cui si dirama un corridoio, il cui sviluppo si segue con lo sguardo per pochi metri. Un altro cunicolo, di ridotte dimensioni, si apre a circa tre metri di altezza sulla parete a sinistra. Frammenti di ceramica ad impasto protostorica e acroma di incerta datazione si rinvengono qua e là sparsi, sia sulla superficie interna della grotta che sul terrazzamento antistante. Sull’opposto pendio del Canale del Ciolo si apre, a 62 metri s.l.m., la Grotta Prazziche di Sopra, da alcuni anni attrazione di un noto locale notturno. Lunga 42 metri e larga 6 metri, è stata oggetto di due campagne di scavo svoltesi nel 1964 e 1965, che hanno messo in luce una stratigrafia con abbondante fauna (cervi, volpi, cavalli e bovidi) in associazione con industria litica su calcare forse del Paleolitico superiore. Di estrema importanza archeologica è il rinvenimento di industria neolitica legata a tecniche di lavorazione paleolitiche, che dimostra il lento processo di neolitizzazione della popolazione indigena, rispetto ad altri gruppi umani della penisola già assimilati dalla nuova cultura neolitica. I rinvenimenti più importanti da Grotta Prazziche sono stati effettuati dall’archeologo Borzatti Von Lowenstern. Si tratta di due oggetti d’arte mobiliare: un osso fluitato dipinto a macchie rosse ed un ciottolo graffito. Un’altra cavità che ha conservato per millenni frammenti di storia umana è la Grotta della Serratura, in località Fogge, a nord del canalone. Anche in questo caso le indagini di superficie hanno rilevato la presenza di un deposito archeologico che consisteva in ceramica riferibile a diverse fasi dell’età protostorica.

(Marco Cavalera)

GROTTA CIPOLLIANE (GAGLIANO DEL CAPO) La terra e il mare, due elementi dalle caratteristiche organolettiche agli antipodi, fisicamente distanti ma al contempo sempre così vicini: si rincorrono, bisticciano, si baciano. Le acque dalle quali le terre sono emerse sembrano quasi che vogliano schiaffeggiare quelle rocce che ne sovrastano la superficie, per poi cullarle dolcemente pochi istanti più tardi, quando la rabbia è ormai scemata. Lungo le falesie del Salento quelle rocce guardano costantemente il mare e si protendono ad esso con una velata nostalgia, rimpiangendo quasi i tempi che furono. Una linea di confine, pattuita dopo estenuanti battaglie, sulla quale decisero di marciare alcuni dei primi insediamenti umani, probabilmente estasiati da quel tripudio di colori e profumi che gli dei hanno voluto porgere in dono. Anche noi oggi camminiamo su quelle falesie; non ci sono più i Neanderthal, non c’è più il mare che ci guarda a testa in su, solo un mistura di profumo di timo, origano ed erba cipollina a conferire il tocco dell’artista alle Grotte Cipolliane. Tre ripari si aprono sulla falesia esposta ad est, sull’alta scogliera a metà strada tra le località marine di Novaglie e Ciolo, nel territorio comunale di Gagliano del Capo. Il mare, che ora si trova 30 metri più in basso, un tempo invadeva con prepotenza questi ambienti. Lo testimonia la ricchissima documentazione di conchiglie, pecten e rudiste che ricopre completamente la superficie interna dei tre antri, scavati naturalmente nella roccia friabile e porosa del Terziario (65 – 1,8 milioni anni fa). Il riempimento della cavità si caratterizza per la presenza di sabbie e detriti calcarei minuti, associati a industria litica (lamelle a dorso, piccoli grattatoi circolari) di tipo romanelliano (9-12 mila anni fa) e ad abbondantissimi resti faunistici (equidi, bovidi, cervidi, asini selvatici, piccoli mammiferi e uccelli). Ovunque si appoggi il piede non si può fare a meno di calpestare minute selci scheggiate, frammenti fossili di ogni genere, gusci intatti di molluschi bivalvi che hanno permesso di avanzare l’ipotesi di un’economia prevalentemente basata proprio sulla raccolta di questi ultimi, attività che caratterizzerà il Mesolitico europeo qualche millennio dopo. La fauna (tipica di un clima freddo) e l’industria litica rinvenuta fanno pensare ad un riempimento della superficie delle cavità avvenuta alla fine della glaciazione di Würm, circa 10 mila anni fa, quando il mare in regressione avrebbe messo in luce una fascia costiera, attualmente sottomarina, sulla quale si sarebbero formate delle dune di sabbia antistanti alla grotta, i cui granuli trasportati dal vento si sono pian piano adagiati fino in profondità della breve caverna, mescolandosi a sedimenti calcarei provenienti dal disfacimento delle pareti e della volta della cavità. Camminiamo ancora su quella linea immaginaria di questa magnifica falesia, un arcaico filo di Arianna, la via d’uscita di Teseo dal labirinto di Cnosso che ci connette indirettamente e con continuità fino a 30.000 anni fa, alla fine del Musteriano, colmando una secolare lacuna archeologica che si è protesa fino al Paleolitico Superiore. Nel riparo più ampio, a seguito di scavi effettuati negli anni ‘60 del secolo scorso, è stato infatti individuato un giacimento archeologico che copre un arco temporale che va da 29-20 mila anni fa (Gravettiano) a 10 mila anni fa (Romanelliano), periodo, quest’ultimo, al quale dovrebbe riferirsi anche un ciottolo inciso con figure, d’incerta interpretazione, rinvenuto durante la pulizia del deposito superficiale da parte dell’archeologo De Borsatti e che presenta alcune affinità con quelli trovati all’interno di grotta Romanelli (Castro). Teniamo in mano questo filo, quasi come delle moderne Parche che vogliono giocare con il destino degli uomini. Decidiamo di non reciderlo affinché possa continuare a connettere il nostro presente con il futuro che verrà. Gli dei ci hanno osservato per tutto il tempo da dietro un cespuglio, ci invidiano, vorrebbero questo luogo per sé stessi. Ma il loro tempo è finito, lasciamo lo spazio agli uomini ormai, tutto questo è nostro! Facciamone buon uso.

(Marco Cavalera, Marco Piccinni)

Per informazioni e visite guidate con guida turistica:

ASSOCIAZIONE CULTURALE ARCHÈS
Via G. Carmignani, 14 – 73039 Lucugnano (LE)
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - www.associazionearches.it
mobile: 340.5897632 - Cod. Fisc. 90032070758

Trekking - Fra il mare e la terra

Tra terra e mare, camminare nel Capo di Leuca è un’esperienza unica. I sentieri, in qualsiasi stagione dell’anno, invitano a riflettere sulla storia dei luoghi e sulla natura.

In marcia verso Finibusterrae

Tra la Terra Santa e Roma, tra Gerusalemme e il cuore dell’Europa, Santa Maria di Leuca è una tappa quasi obbligata. Al culmine del Salento proteso nel Mediterraneo, l’approdo di Leuca è sempre stato un crocevia di popoli, culture e religioni. La Via Francigena, nel Basso Salento, offre l’opportunità di attraversare storici e affascinanti luoghi di culto e sentieri che tagliano una natura selvaggia e incontaminata. Diverse associazioni organizzano e promuovono escursioni con guida http://www.associazionearches.it/ e https://www.trekkingsalento.com/ , mentre è particolarmente attivo nella promozione della Via Francigena il Parco ecclesiale “Terre del Capo di Leuca - De Finibus Terrae”, che fa capo alla Basilica di Leuca. Fra le mete più suggestive c’è senz’altro Leuca Piccola, ovvero la basilica di Santa Maria del Belvedere a Barbarano (frazione di Morciano di Leuca), una tappa obbligata dei pellegrini verso Finibusterrae che ancora oggi fa rivivere le emozioni del cammino verso Leuca. C’è poi il Santuario di Santa Marina, a Ruggiano (frazione di Salve), con la sua regale facciata e l’antistante pozzo miracoloso che respira di storia.

E ancora i resti della chiesa di San Pietro a Giuliano (frazione di Castrignano del Capo) che risale all’anno 1000 con le sue labili tracce di affreschi.

A poco meno di un chilometro da Leuca, infine, c’è l’Erma Antica di Castrignano del Capo, un pilastrino in pietra con l’effigie dell’Angelo e una preghiera alla Vergine, realizzato nel 1753: distrutto in seguito a un incidente stradale, è stato ripristinato alcuni anni fa. Da qui partiva l’ultimo, commosso, sforzo dei pellegrini per raggiungere Finibusterrae, un ponte naturale tra Oriente e Occidente. Lungo il fiordo primitivo Per scoprire la natura selvaggia del Capo di Leuca un comodo e affascinante sentiero è quello che conduce da Gagliano del Capo al Ciolo, piccola località della costa orientale. Partendo da Gagliano, si imbocca prima via Novaglie e poi via Ciolo.

Sulla strada c’è la Cappella della Madonna di Leuca, ultimo segno di civiltà prima di tuffarsi in un sentiero che per quasi quattro chilometri corre al fondo di un vero e proprio fiordo. Si cammina su un tracciato attrezzato con una staccionata in legno, stretti fra i due costoni rocciosi, mentre gli ulivi lasciano il passo alla macchia mediterranea, fra muretti a secco e piccole “pajare”.

Il tratturo del Ciolo segue il fondo del canalone che nell’arco dei millenni ha scavato incessantemente la roccia con l’acqua diretta verso il mare. Un passo dopo l’altro muta il paesaggio e all’orizzonte si delinea il profondo blu del mare, annunciato da una piccola spiaggetta, ideale per la balneazione in estate, sormontata dal ponte su cui corre la litoranea. Dal Ciolo (ma bisogna risalire sul piano stradale) inizia un altro spettacolare percorso, quello delle Cipolliane, che si snoda in un paesaggio mozzafiato a picco sul mare, dove lo sguardo spazia fino all’isola greca di Fanò. Il sentiero attrezzato, tra una “pajara” e una “mantagnata”, conduce al cospetto di un’enorme cavità naturale che si apre a 30 metri sul livello del mare: si tratta del complesso delle Cipolliane, grotta conosciuta e frequentata fin dalPaleolitico e che ha restituito ciottoli che recano incise indecifrabili figure, strumenti in selce e ceramica protostorica.

I sentieri del Ciolo e delle Cipolliane sono soltanto due della rete di cammini disegnata dal Parco Naturale Regionale Costa Otranto - Santa Maria di Leuca - Bosco di Tricase (per conoscere i singoli percorsi trekking e ciclopercorsi consultare il sito www.parcootrantoleuca.it). Il Ciolo è anche il ritrovo ideale degli amanti dello sport estremo e del free climbing: lungo le pareti del canalone, infatti, è possibile misurarsi in arrampicate sportive, a due passi dal mare, ma come se ci si trovasse in montagna. Pedalando sull’acqua Finisce qui, a Santa Maria di Leuca, la Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese, una delle quattro ciclovie di interesse nazionale in fase di realizzazione con fondi governativi. I

n attesa che il progetto si realizzi, già ora è possibile percorrere l’intero tracciato seguendo la condotta storica dell’Acquedotto Pugliese che, attraverso il Canale principale (da Caposele a Villa Castelli) e il Grande Sifone Leccese, giunge fino a Leuca. Qui l’arrivo dell’acqua, un evento che strappò alla sete una intera regione di quattro milioni di abitanti, è celebrato con una grande cascata monumentale, realizzata nel 1939, oggi accesa solo in particolari occasioni. Pedalare sulla via dell’acqua nel Basso Salento offre l’occasione di attraversare uno straordinario paesaggio tra ulivi e stradine segnate da muretti a secco e “pajare”. Info su www.aqp.bike, il sito del Coordinamento dal Basso per la Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese.

Il bello dell'entroterra

Santa Maria di Leuca è il culmine del Salento. Alle sue spalle c’è un territorio ricco di tesori, tra storia e natura: piccoli ma eleganti borghi, masserie circondate da uliveti, sentieri stretti tra muretti a secco, antiche “pajare”. Per conoscere l’entroterra di Leuca, basta solo fare pochi chilometri, imboccando la fitta rete di strade che caratterizza il Salento.

I due cuori di Castrignano

Castrignano del Capo ha due cuori: il primo pulsa in piazza San Michele dominata dalla chiesa madre, ricostruita sulle macerie di quella distrutta dal terremoto del 1743. L’altro cuore di Castrignano è dall’altra parte del paese, in piazza delle Rimembranze. Un arco senza porte apre quello che, a prima vista, è un palazzotto come tanti: un’insegna indica Borgo Terra. L’androne è un viadotto per il Medioevo, verso il nucleo abitativo più antico, un casale a mo’ di quadrilatero, ogni lato lungo 60 metri, per difendere gli abitanti dalle tante incursioni di briganti e saraceni. Piccoli interventi di adattamento non hanno intaccato l’originaria struttura che affascina con le sue porticine, le finestrelle, gli ortali o i cunicoli dabbasso che celano frantoi ipogei.

Solo una strada e un boschetto separano Castrignano da Salignano, nota per la torre di difesa del 1550, dal color latte e miele del carparo, a pianta circolare, larga 20 metri e alta 15. Da vedere anche la chiesa madre di Sant’Andrea di fine ’700, con altari barocchi e tele di modesto pregio.

A nord, superata Patù, si trova l’altra frazione di Castrignano. Conta neanche seicento abitanti, Giuliano di Lecce, e una storia antica, il cui primo capitolo fu scritto da tal Julianus, centurione romano che la fondò. Al centro storico si accede dalla porta di piazza San Giuliano, lungo le mura difensive erette nel XVII secolo. La statua di pietra rosea del santo dà le spalle al castello cinquecentesco, avvolto dal fascino misterioso dell’originaria architettura militare, due torrioni ai lati, cortine e quattro alti bastioni.

A pochi passi da qui, via Regina Elena presenta il monumento più antico del paese, il menhir Mensi, di 2,34 metri in carparo, sormontato dal curioso “cappello”. Tra le viuzze spiccano singolari smorfie: sono quelle che, dal 1609, sbeffeggiano i passanti e scacciano influenze maligne dalla loggia degli sberleffi, 15 figure atropopaiche dal terrifico ghigno, scolpite nella pietra di un’abitazione privata di via D’Azeglio.

Il volto antico del borgo

Gagliano del Capo ha un volto antico affascinante, legato alle vicende dei suoi feudatari, con mura fortificate e castello. In piazza Immacolata la cappella dell’antica confraternita fa compagnia alla colonna dell’Immacolata eretta nel 1825, secondo monumento simbolo del paese, coetaneo del primo, la colonna di San Rocco, messa di fronte per una scelta urbanistica che li volle ai capi opposti del corso Umberto I. Il centro storico incasella piccoli abituri, imponenti palazzi e case in architettura tipicamente tardomedievale, che valgono bene una lenta e attenta passeggiata.

Il bello di Leuca Piccola

Barbarano del Capo è solo una piccola frazione di Morciano di Leuca, un borgo carico di storia conosciuto anche come “Leuca piccola”. Il complesso di Santa Maria di Leuca del Belvedere era una tappa obbligata per i pellegrini, giunti alle porte di Finibusterrae. Fuori dal santuario, resta qualcuna delle arcate che ospitavano imercanti e, al centro, un ampio portale. La chiesa è di fine Seicento, esatta riproduzione della basilica di Leuca com’era nel 1685. Nel piazzale, proprio a sinistra della porta, c’è incastonata una singolare lapide con le “10 P”, saggio acronimo per avvertire che “Parole Poco Pensate Portano Pena Perciò Prima Pensate Poi Parlate”.

A Barbarano ci sono anche le “vore”, la “piccola” e la “grande”, facilmente raggiungibili, grandi voragini nel terreno in cui affluiscono naturalmente le acque piovane, oggi recintate, ma dal fascino immutato, vere opere d’arte della natura.

Tra Centropietre e Messapi

A Patù cattura l’attenzione del “pellegrino” la chiesa di San Michele Arcangelo, sorta nel 1564 con la sua facciata tardo-rinascimentale. Dalla rinnovata pavimentazione della piazza sbocciano come tanti piccoli pozzi, le finestrelle dai cui vetri s’intravedono i granai ipogei. A poche centinaia di metri dal centro, ecco le Centopietre, la “maraviglia archeologica della provincia di Lecce” secondo la definizione ottocentesca dell’archeologo parigino Françoise Lenormant. Cento, per l’appunto, sono i grossi blocchi di Vereto che servirono alla costruzione di questo singolare monumento funebre per il generale Geminiano che, inviato dai cristiani al campo dei mori come messaggero di pace, fu barbaramente ucciso nell’877. Di fronte si erge la chiesa di San Giovanni Battista, tipico esempio d’arte romanica pugliese. A breve distanza c’è l’antica Vereto messapica che domina la piana e il vicino mare dall’alto di una collina, dalla cui distruzione e fuga dei sopravvissuti nacque Patù.

Un tuffo nel passato nello splendido scenario della costa di Leuca.

La proposta di escursione prevede un magnifico viaggio nel tempo, oltre che nello spazio, alla riscoperta di luoghi magici che celano scorci incantati, tesori di inestimabile valore sotto il profilo storiconaturalistico che solo la navigazione sottocosta può svelare.

La motonave vi condurrà in un viaggio indimenticabile tra le meraviglie nascoste della costa di Leuca, partendo dal caratteristico porticciolo turistico di Torre Pali, località balneare tra le più frequentate nel Salento che prende il nome da un’affascinante torre costiera, costruita nel 1563 su di uno scoglio isolato a circa 20 metri dalla riva. La sua funzione preminente era di difesa dell’entroterra salvese dalle scorrerie dei pirati, che infestavano i nostri mari portando sventure e calamità alla povera gente del posto.

La navigazione procede sottocosta lungo le dorate distese sabbiose di Marina di Pescoluse e Posto Vecchio, una lunga spiaggia incantevole che fa da cornice ad un mare cristallino e dalle sfumature cromatiche caraibiche. Giunti nelle acque di Torre Vado l’attenzione del navigante si volge su una delle torri costiere in miglior stato di conservazione del Salento. La torre, risalente intorno alla metà del XVI secolo, si erge maestosa a ridosso del piccolo porto dell’omonima località, del tutto priva della sua originaria funzione difensiva.

Le docili onde del mare ci conducono nella suggestiva insenatura di Torre San Gregorio, che da più di due millenni e mezzo ospita un piccolo approdo. Dell’antico porto sono visibili alcune vestigia di età messapica e romana, sia a terra (allineamenti di blocchi ciclopici a ridosso della linea di costa) sia sommerse (un’opera frangiflutti che fungeva da protezione dell’insenatura dai venti meridionali).

Dopo aver salutato l’antico approdo dei Messapi di Vereto (Patù), la nostra imbarcazione ci accompagna verso Santa Maria di Leuca, località nota agli antichi come situata “ai confini del mondo”, dove il noto lascia spazio all’ignoto e l’immaginario collettivo ha ambientato eventi mitici e fantastici, ha localizzato dimore di dei, eroi e mostri terrificanti, come attestato dai nomi attribuiti ad alcune delle grotte di Finibus Terrae.

L’escursione proposta si pone come obiettivo quello di far scoprire al visitatore questi luoghi celati, spesso inaccessibili dalla terraferma, che proprio per la loro misteriosità sono stati oggetto di superstizioni e di culti primordiali.

Molte delle grotte che andremo a visitare hanno restituito tracce di frequentazione antropica risalenti a decine di migliaia di anni fa, ossia al Paleolitico medio (130000/35000 anni fa), quando l’Uomo di Neanderthal fissò nel Salento i suoi campi base, utilizzando queste grandi cavità naturali come ripari e dedicandosi a tempo pieno all’attività di caccia nelle ampie foreste alternate a macchia e prateria, dove non era difficile imbattersi in elefanti, rinoceronti, cavalli, cervidi, orsi, cinghiali, iene ed ippopotami.

La Grotta del Drago è il primo degli antri che incontriamo nella nostra navigazione di cabotaggio. L’acqua al suo interno, di colore verde-azzurro, crea spettacolari giochi di luce sulle pareti e nel fondale della cavità. La grotta consiste in un ampio vano che presenta due immense aperture, alte circa 30 metri, separate da un pilastro di roccia. Essa prende il nome da uno scoglio che mostra notevoli affinità morfologiche con un drago. Al suo interno la grotta ha conservato un deposito preistorico, che presenta resti faunistici di pachidermi (elefanti e rinoceronti) vissuti circa 70000 anni fa, quando le condizioni climatico-ambientali (periodo interglaciale Riss-Würm) erano molto più adatte alla natura di questi animali. Alcuni pescatori del luogo asseriscono che la grotta ospitava alcuni decenni or sono una foca monaca.

Poche miglia più a sud-est ci imbattiamo in una delle cavità carsiche più rilevanti dal punto di vista paletnologico: si tratta della Grotta dei Giganti, che è stata oggetto di esplorazioni già a partire dal ‘600,quando il canonico alessanese Francesco Pirreca rinvenne numerose ossa di pachidermi che classificò come ossa di giganti. Nel secolo scorso altre prospezioni, effettuate nella parte bassa della grotta, hanno permesso di individuare un ricco giacimento di industria su selce e su calcare di fase musteriana (complessi litici riferibili all’uomo di Neanderthal) unitamente a ceramiche attribuibili all’età del Bronzo (4300-3000 anni fa), mentre ad una quota superiore è stata rinvenuta una tomba di età altomedievale (IX sec. d.C.), ceramica coeva e cinque monete di bronzo di Costantino VII e Romano I.

Lasciata alle spalle la Grotta dei Giganti, ci si dirige verso un’altra cavità che si apre tra le vertiginose rocce di Punta Ristola, anch’essa ricca di fascino e di suggestione: si tratta della Grotta delle Tre Porte, che prende il nome dagli immensi triplici ingressi attraverso i quali il vano interno semisommerso comunica con il mare. Lungo le pareti interne ed esterne si notano lembi di riempimento detritico concrezionato, che contengono frammenti di ossa, talora combuste, di fauna di prateria e di elefanti e rinoceronti. Sulla parete settentrionale del vano interno della grotta si può osservare un cunicolo che si estende per 27 metri e che termina con un’ampia camera ricca di stalattiti e stalagmiti. Questa cavità si chiama Antro del Bambino, perché in essa fu rinvenuto un dente (un molare superiore sinistro) appartenuto ad un bambino neandertaliano di circa 10 anni, associato a resti di focolari, industria musteriana su selce e calcare e ossa fossili di fauna pleistocenica.

Continuando il periplo dell’Akra Iapigia, il lembo di terra più meridionale della Puglia, si osservano nascoste tra le bianche scogliere leucane altre numerose cavità, alcune delle quali purtroppo non raggiungibili dal mare. Una di queste è la celeberrima Grotta del Diavolo, antro che incute superstiziosi timori a tal punto che lo scrittore francese Francois Fenelon, nel quattordicesimo volume delle sue “Aventures de Telemaque” lo descrisse come “l’ingresso degli inferi attraverso cui il figlio di Ulisse si spinse alla ricerca del padre”. Esplorazioni effettuate nella grotta nel corso dell’800 e del secolo scorso hanno portato alla luce depositi contenenti fauna di mammiferi, resti ossei umani, valve di molluschi, strumenti in selce e numerosi reperti ceramici databili al Neolitico Finale e all’età del Bronzo (5000-3000 anni fa).

Dalla Grotta del Diavolo si può raggiungere, attraverso un sentiero, la Grotta Porcinara, molto conosciuta al tempo dei Messapi in quanto vi si svolgevano dei riti in onore di Batas, una divinità maschile che impugna il fulmine. La grotta si apre su Punta Ristola, di fronte all’ideale punto di incontro tra i due mari Ionio e Adriatico. Era il luogo in cui i Messapi scambiavano prodotti e conoscenze con i mercanti greci, i quali portavano doni – vasi attici, crateri ed anfore a figure rosse e nere - al dio del fulmine e incidevano iscrizioni per chiedere protezione alla divinità venerata nella grotta contro i pericoli del mare, per ringraziare il dio per la buona riuscita della traversata del breve tratto di mare che separa la costa salentina da quella illirica, per sciogliere qualche voto.

Superata la Grotta del Diavolo e le annesse vicende mitiche e storiche, proseguiamo il nostro periplo verso est, dove a circa duecento metri, nel Canale "Sparascenti", rimaniamo estasiati davanti all’ingresso della Grotta del Fiume, così chiamata per un avvallamento che la sovrasta, prodotto dell’erosione di un antico torrente che sfociava nel mare. La grotta è profonda circa trenta metri ed accedendovi a piedi è possibile arrivare da un passaggio alla Grotta del Presepe.

La navigazione, a questo punto, procede verso est, dove è possibile ammirare Punta Meliso, con il promontorio che dolcemente si inabissa nelle profondità del Mare Mediterraneo, con le rocce calcaree che abbagliate dal caldo sole del Salento diventano bianche, come l’imponente faro (costruito nel 1864) che dall’alto dei suoi 47 metri emette un fascio luminoso che nelle ore notturne si specchia nelle acque antistanti l’Akra Iapigia. Se il faro è un fondamentale punto di riferimento per i naviganti di questo tratto di mare, il Santuario di S.M. de Finibus Terrae, di recente visitato anche dal pontefice Benedetto XVI, rimane una delle mete più importanti per i pellegrini che giungono ogni anno da ogni parte del mondo, anche perché una leggenda narra che almeno una volta nella vita occorrevisitare il Santuario di Leuca se si desidera ottenere pace e beatitudine nell’Aldilà.

Doppiato il promontorio japigio la motonave si dirige verso nord, alla scoperta delle numerose grotte che si aprono, alla base della selvaggia falesia alta fino a 60 metri, sul mare di colore blu intenso, che in questo tratto raggiunge a pochi metri dalla costa la profondità di 20-30 metri. Incontriamo in una interminabile successione cavità modellate dall’azione erosiva del mare con scorci ed effetti luminosi di inimitabile bellezza: Grotte di Terrarico, Grotte di Verdusella, Grotta la Cattedrale. Una delle grotte più suggestive del litorale di Levante è la Grotta della Vora, una cavità alta più di 25 m con la volta attraversata da un inghiottitoio, che crea meravigliosi giochi di luce.

Le grotte si susseguono innumerevoli una dopo l’altra. Ci imbattiamo così nella Grotta dell’Ortocupo e la Grotta del Soffio. Si tratta di due cavità molto vicine tra loro, poste in una piccola insenatura. Sono grotte dall’atmosfera magica e surreale, nelle quali l’acqua dolce purissima si mescola con quella marina, creando spettacolari effetti coloristici. Quando l’aria dall’interno viene espulsa all’esterno, si crea un particolare spruzzo, denominato “soffio”.

A breve distanza dall’Ortocupo e dal Soffio si aprono le due Grotte della Vora, molto vicine tra loro. Sono così chiamate per il foro circolare (detto in dialetto salentino “vora”), formatosi sulla volta della cavità ad oltre 60 metri di altezza. Il fascio di luce che vi penetra, a contatto con l'acqua del mare, crea suggestivi effetti luminosi a tal punto che, quando ci si trova all'interno, si ha l'impressione di essere in una maestosa cattedrale.

La nostra escursione termina presso le Grotte delle Mannute, cavità a mezza costa con cupole che si caratterizzano per la presenza di stalagmiti e stalattiti che raggiungono i sette metri di altezza.

Dopo aver rivolto l’ultimo sguardo al mare Adriatico, con i suoi promontori che degradano a picco sul Canale d’Otranto, la motonave vi riporterà nel porticciolo di Torre Pali, da cui siamo partiti per questo straordinario viaggio tra le meravigliose grotte dell’Akra Iapigia, seguendo il cammino del sole che in questo ultimo scorcio della giornata mestamente va a nascondersi dietro le frastagliate montagne dell’antica Enotria, per riapparire magicamente l’alba successiva alle spalle degli Acrocerauni, la catena montuosa dai profili ruvidi e grigiastri che attraversa l’Epiro e la Grecia settentrionale, visibile all’orizzonte nelle giornate in cui il cielo è limpido.

Grotte - I capolavori del mare

Leuca dal mare è tutta un’altra cosa. Quando la terra sembra finire, un nuovo scenario può aprirsi se si è disposti a lasciare la costa solcando i capricci delle onde. Grotte, anfratti e calette si celano alla vista da terra e spesso anche dal mare, incastonate nella scogliera impervia all’incrocio dei due mari. Per esplorare le grotte di Leuca non servirà un “apriti sesamo” di fiabesca tradizione, ma un valido “lupo di mare” per condurre l’immaginazione dove non contava d’arrivare, e di casa, qui, ce ne sono tanti. Qui gli uomini di mare si sono attrezzati per accompagnare turisti e salentini, abili non solo al timone di una barca, ma anche nei racconti. Questi capolavori della natura, infatti, si possono ammirare solo dal mare che nei millenni li ha scolpiti e levigati con la sua creatività, a seconda dell’umore. Quelle che da lontano appaiono ombre lunghe e strette, protese verso il cielo come guglie gotiche sulla pietra coccolata dal sole, d’improvviso guadagnano profondità nella terraferma, schiudendosi come bocche meravigliate, mentre l’estro dell’uomo perde fascino paragonato al talento delle onde.

Da Finibusterrae al Ciolo

Andando verso Levante, incastonata proprio dietro al lungo braccio del porto, c’è la Grotta Cazzafri, che sembra aver ereditato dal greco il suo nome, adeguandosi a una traduzione che la vorrebbe “casa di spuma”, quella che le onde rilasciano infrangendosi sulle sue pareti. Accedendovi in barca, si ammira la volta che si scioglie ricca di stalattiti e, arrivando in fondo, si approda al poggiolo per una comoda sosta.

Navigando ancora verso Levante, si incontra la Grottella o “Ruttedda”, meta preferita per le arrampicate a mani nude; posta sotto il radar, è nota per la polla d’acqua dolce che zampilla dal mare. Ci vivono, come nelle altre, i colombi torraioli, gufi, pipistrelli e barbagianni.

Sono tanti e curiosi i nomi che i leuchesi hanno dato alle caverne, come la Grotta di Terrarico, detta anche “Bocche di Terrarico” o “degli Indiani”, per la sua forma triangolare che ricorda una tenda. In realtà si tratta di un complesso di tre cavità di varia grandezza, che si aprono alla punta del Promontorio di Terrarico: l’interno è caratterizzato da un eccezionale spettacolo di luci e colori, dal verde marino allo smeraldo e al giallo. Il logorio delle onde ha creato all’entrata un mostro di pietra che, tra qualche secolo, s’inabisserà nel mare. L’erosione modifica ogni giorno le rocce, e anno dopo anno ci si accorge delle differenze.

Giunti alla Grotta de lu purraru, guardando in alto, attraverso il portale alto ben 25 metri, stalattiti acuminate incedono dall’unico punto in cui il fragore del mare non arriva, mentre la Verdusella è interdetta alla navigazione per via di un masso in bilico pronto al tuffo del non ritorno.

L’interno della Grotta dell’orto cupo è simile a un orticello buio e tranquillo. Le pareti rocciose sembrano mosse dal vento e un gioco di luci diverte occhiate repentine che non vogliono farsi sfuggire riflessi unici di cristallo liquido. Proprio dal suo fondale, ma solo per esperti, ci si può addentrare in una galleria lunga circa 80 metri, la Grotta della principessa. Forse è la nobildonna che, annoiata dell’abisso, sbuffa lì accanto, dalla Grotta del soffio che genera un magico mulinello d’acqua e aria, nebulizzata all’esterno. L’apertura è a filo d’acqua e solo lasciandosi trasportare dal risucchio completamente immersi, si può riaffiorare nell’antro, con l’impressione di sfociare in un universo parallelo per il fascino dei colori e la sensazione di leggerezza.

La traversata continua fino alla Grotta della Vora, da alcuni detta “Cattedrale”, da altri “della Madonna”, per via del sole che filtra da un rosone scolpito dalla maestra natura sulla volta, a 60 metri d’altezza: a mezzogiorno i raggi precipitano nel foro come il faro che sul palco è fisso sul protagonista, il fondale infinito del “mare spunnatu”. Nella Giuncacchia, invece, i raggi giocano con il verde facendola sembrare una distesa di giunchi, da cui il bizzarro nome.

A mezza costa ecco le Grotte delle Mannute, accessibili solo da terra ma visibili dal mare, prendono il loro nome, invece, dalle numerose stalattiti dalla parvenza di piccole mammelle. Vale la pena risalire fino alla Grotta del pozzo, o “Grande del Ciolo”, vicina all’omonima insenatura, che pare fosse casa delle ultime foche monache, un tempo abitanti privilegiate del litorale che volge a Levante. L’interno segue due direzioni: una va verso il laghetto d’acqua salata; l’altra, penetrando il sottosuolo, arriva alla “Stanza del Duomo” e poi, ancora, alla “Stanza dei pipistrelli”, che a migliaia la popolano.

Dalla Porcinara alla Grotta degli Innamorati

Sul litorale di Ponente, oltre Puna Ristola, la più celebre grotta di Leuca s’affaccia soltanto, senza aprirsi allo Ionio: è la Porcinara, il cui accesso da terra è interdetto da perentorie cancellate che proteggono impronte millenarie dalla smania di sfacelo che caratterizza l’essere umano di giovane età. Qui, gli antichi si rifugiavano in preghiera per compiacere il dio del mare.

Punta Ristola si prolunga dalle fauci della Grotta del Diavolo, già segnalate nel ’700, in tempi antichi si credeva fosse la “porta dell’inferno” attraverso cui passò Telemaco alla ricerca del padre Ulisse. Fin dai primi scavi, la gola “satanica” ha restituito reperti interessanti, unici, come ossa, valve, armi e utensili, testimoni probabili di una frequentazione risalente al Neolitico.

Inferi alle spalle, un’angelica insenatura vanta tonalità turchine che indicano fondali non più come abissi: era l’ampia Grotta del cerchio, sprofondata secoli fa. In alto si vede uno scivolo in cemento, la pedana da cui si gettavano in mare i rifiuti liquidi. La conca è detta per questo “bocca del maiale”.

Poi la scogliera si fa meno frastagliata, come bagnasciuga di roccia levigata, e ci si infila nella Grotta di mesciu Scianni: maestro Gianni, ufficialmente, era artigiano e qui raccoglieva pietre per farne splendidi mosaici.

La Grotta del fiume, con le sorgenti d’acqua dolce che sgorgano all’interno, è collegata alla Grotta Titti, detta anche “della bambina”, dove fu ritrovato il dente di una fanciulla preistorica. Tre alti accessi giustificano l’entrata alla Grotta delle tre porte, a cui segue quella dei Giganti, dove sarebbero stati ritrovati resti umani di dimensioni enormi, ché leggenda vuole qui sepolti i giganti uccisi da Ercole libico, o magari più semplicemente ossa di pachidermi, come suggerisce invece la razionalità.

Segue la Grotta del Presepe, che pur lontana da suggestive atmosfere natalizie, è così detta forse per via di stalattiti e stalagmiti, personaggi d’una scenografia quasi sacra. Accanto, la Grotta della stalla, completa l’opera “presepiale”, più volte riparo dei pescatori in difficoltà. Porta con sé il mistero di una leggenda, la Grotta del Morigio: qui, si racconta, i “mori” fecero una sosta di ricognizione, prima dell’assalto e della distruzione di Leuca. Semicelata, dalla terra e dal mare, è ben nota anche come “Grotta degli innamorati”. Solo un tuffo nell’acqua fresca di sorgente permette di godere dell’inventiva dello Ionio, che qui ha formato un ambiente intimo e suggestivo. Poche bracciate nell’acqua pungente e la vista si abitua gradualmente al buio, accompagnato dai riflessi del sole sul fondale sabbioso tinto di cromatismi caraibici.

Le membra ritemprate riaffiorano su due spiaggette riparate, luogo prediletto dalle coppiette leuchesi per sfuggire alla canicola estiva e ad occhi indiscreti.

Infine si incontra la Grotta del drago prima che le spiagge digradino gentili sul litorale: dentro, a sinistra del pilastro centrale, la testa di una murena perfettamente imitata dalla roccia sbuca dal soffitto; in fondo vi è un profilo dai tratti umani tutt’altro che vaghi, a destra un coccodrillo enfatizzato dal verde dei licheni, sculture che la pietra ha commissionato al mare per scacciare la noia di certi pomeriggi piovosi.

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